Fausto Melotti. ZOAGLI
11 marzo - 29 maggio 2021
Galleria Christian Stein
Corso Monforte 23, Milano
La mostra Fausto Melotti. Zoagli, ospitata dalla galleria Christian Stein, rappresenta un’occasione unica per conoscere un aspetto inedito della produzione dell’artista, già largamente noto come scultore, ceramista, poeta e musicologo. L’eccezionalità della proposta espositiva è rappresentata da un’ampia serie di dipinti a olio su tela, detti Zoagli, realizzati nell’omonima cittadina ligure nella prima metà degli anni Cinquanta e per la maggior parte mai esposti al pubblico.
Le dolorose lacerazioni della Seconda Guerra Mondiale sconvolgono profondamente l’animo di Melotti (Rovereto 1901 – Milano 1986) e lo allontanano dalla fede giovanile nell’ideale di ordine e perfezione espresso nelle sculture astratte esposte nel 1935, nella prima mostra personale alla galleria Il Milione di Milano. A tal proposito dichiara: “A me la guerra ha lasciato un grosso travaglio interno. Penso che poter fare dell’arte astratta, non vi si può pensare avendo nell’anima qualcosa che ti porta verso certo non dico disperazioni, ma le figure della disperazione, che a me non piacciono”.
Negli anni del dopoguerra lo scultore si ritira lentamente dalla scena pubblica, alla ricerca di una dimensione più intima e personale, e si dedica alla pratica della scrittura, del disegno e alle piccole creazioni che realizza nell’ambiente rassicurante del suo studio.
E’ un periodo di private ma fertili ricerche, nelle quali l’artista sperimenta l’uso di materiali e tecniche diverse che stimoleranno la sua vena creativa e si esprimeranno in un ricchissimo repertorio di forme. Crea minimali sculture in metallo, bassorilievi in gesso graffito, formelle di creta tinte ed inoltre sviluppa il tema dei Teatrini. L’utilizzo della ceramica si rivela pieno di stimoli e potenzialità inventive che si esprimono nella creazione di personaggi ed animali fantastici e vasi dalle forme originali. Oltre che nella ceramica, la ricerca cromatica si esprime in fogli densi di colore stratificato, steso a gesto, con bruciature e dorature. Nella variegata produzione, viene alla luce una delle peculiarità dell’artista: quella di trasformare dei materiali poveri in qualcosa di prezioso ed evocativo.
L’esercizio quotidiano dell’espressione soggettiva immediata e naturale si rivela liberatorio e dà forma a quell’universo melottiano semplice e ricco di suggestioni profonde, nel quale natura e mito assumono le forme dell’arcaico e della poesia, dove l’incontro ben dosato tra ironia e melanconia tocca le corde profonde del nostro sentire individuale e collettivo.
Nelle crete dipinte, nei fogli densamente colorati, nella ricchezza delle iridescenze della ceramica smaltata riconosciamo la sapienza cromatica e tonale dell’artista, il quale a distanza di ventuno anni dalla prima personale del 1935, si riaffaccia sulla scena espositiva nel 1956 con la seconda mostra personale “Le pitture di Melotti” alla galleria L’Annunciata di Milano, nella quale l’artista si presenta al pubblico nella nuova e sorprendente veste di pittore.
Melotti pittore a Zoagli
All’inizio degli anni Cinquanta, nei periodi estivi, Melotti intervalla la sua attività di rinomato ceramista, che lo impegna a Milano, con brevi periodi di vacanza sulla costiera ligure.
Nella piccola cittadina di Zoagli trascorre giorni di quiete familiare. Lo aspettano la moglie Lina e le figlie piccole che alloggiano in un bell’edificio che affaccia sulla via Aurelia. Un giornalista del Corriere d’Informazione lo raggiunge per intervistarlo a proposito dei suoi nuovi quadri. Melotti, commentando il viavai nella strada sotto casa, così lo accoglie: “Queste automobili, questi torpedoni, questi autocarri, queste motociclette che ci fanno disperare in città, come sono simpatici qui, eh? visti dall’alto. Guardiamo giù e ci fa piacere quando ne passano tanti”. Parole spontanee che trasmettono la serenità e la gioia fanciullesca che accompagnano
l’artista in quelle giornate di svago. Con la stessa felicità e freschezza Melotti ritrae il paesaggio incantato che si affaccia sul Golfo del Tigullio, dipingendo a olio su tela, scorci, case, vegetazione, persone. Il suo dipingere nasce da una necessità intima ed istintiva, da un anelito vitale privo d’artificio. È un godimento genuino dell’esistenza e della liricità che appartiene anche alle piccole cose quotidiane.
Nella tavolozza melottiana anche le opere dell’uomo diventano natura. Edifici, strade, terrazze e oggetti sono immersi nella stessa incantevole luce che colora la vegetazione e gli ampi squarci di cielo e mare. Si respira un’aria pura e tersa che si direbbe mossa da una brezza profumata. Sprazzi di bianco si aprono tra gli azzurri, i lilla, i viola, i verdi, i rosa, gli ocra. Piccoli tocchi di colore, a punta di pennello, appaiono come note di uno spartito per pianoforte di Erik Satie. Una pittura vibrante di emozione sincera ma misurata, nella quale tutto sembra avvolto da un “fluido cristallino e trasparente”, come lo definirebbe Carlo Belli.
La rappresentazione filtrata dallo sguardo limpido dell’artista ci riporta in un mondo che, lasciato alle spalle un passato di angoscia e smarrimento, ritrova il proprio ordine di verità e torna ad essere familiare ed accogliente.
Quando nel 1956 Melotti torna ad esporre in galleria presentando una serie di questi quadri ad olio, così dichiara: “Io dipingo. In pittura forse abbiamo ancora il modo di dire qualcosa, una parola che almeno non sia stata pronunciata con quell’accento. Un modo privato, una specie di diario. In scultura più niente da fare, da dire, dopo quello che già è stato detto e fatto. E’ morta, per ora. Nessuno può crederci più”.
L’affermazione perentoria dell’artista riguardo la morte della scultura, sembra quasi presagire la natura delle eteree creazioni plastiche degli anni seguenti che, negando volume e gravità terrena, guadagneranno l’appellativo di anti-scultura. Gli aspetti di leggerezza e armonia che caratterizzeranno le sue sculture aeree e filiformi, trovano corrispondenza sulla tela nei tratti sottili e leggeri, nelle pennellate liquide e veloci, nel rapporto rarefatto tra superficie e materia pittorica. La spontaneità di esecuzione, l’economia di mezzi, la semplicità della rappresentazione sembrano rimandare invece alla modellazione rapida e intuitiva della terracotta.
Questi olii degli anni Cinquanta furono accolti molto positivamente dalla critica che inizialmente li accostò alla linea lombarda chiarista per le loro qualità tonali, per la fusione del colore e della luce nella forma, per lo scarso effetto prospettico. Superando le inadeguate classificazioni di comodo, diremo che la natura antivolumetrica della pittura di Melotti, come nella scultura, non è motivata dall’adesione ad una maniera ma al contrario da un impulso personale profondo che non si affida all’espediente tecnico per definire la forma, ma tenta di restituirne il senso evocandola liricamente.
Quello di Melotti è un diario pittorico che supera il dato di cronaca, per divenire narrazione poetica di una biografia intima. Nelle tele traspare il lento lavorio creativo dei due decenni precedenti, nei quali l’artista ha affinato quel modo privato di percepire l’esistenza, di rappresentare il mondo come dovrebbe o come potrebbe essere se l’uomo preservasse la purezza dello sguardo. Come scrive al termine di un breve racconto dedicato ai giochi fantastici della sua infanzia: “In tutti i bambini la poesia è viva. Poi viene uccisa”.
L’ottica favorevole della distanza temporale ci permette oggi uno sguardo libero da preconcetti e ci consente di apprezzare la poliedricità dell’attività di Melotti come uno degli aspetti che aggiunge valore alla sua opera. La grande varietà di linguaggi espressivi è solo in apparenza incoerente ma di fatto, come ha detto il poeta Giovanni Raboni è “una forma di grande coerenza con le richieste della propria interiorità”. Sotto questa luce il lavoro pittorico di Melotti è da intendersi non come un’eccezione, ma come un tassello aggiunto alla sua creatività che ci permette di apprezzarne ulteriormente la complessità e la ricchezza.